Europa, Erasmus, Identità

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L’EEI non è una delle tante sigle che descrivono un’agenzia europea, bensì il trittico di concetti sul quale oggi vorrei soffermarmi: Europa, Erasmus, Identità. Stiamo infatti festeggiando la settimana europea della gioventù, ma io ormai da qualche anno, nonostante creda nell’UE, mi senta europeo e sia attivo nell’associazionismo giovanile che la promuove, mi chiedo se effettivamente esista o meno un’identità europea.

E per alcuni commentatori, come accademici, giornalisti, politici ed attivisti, il vero problema dell’Unione Europea, ciò che ostacolerebbe la realizzazione di una vera e propria unione politica, più coesa, meno egoista, più solidale e meno nazionalista bensì sovranazionale, sarebbe proprio la carenza di un senso di appartenenza comune tra i suoi cittadini: un’identità europea condivisa. La mia tesi è che sono i giovani che possono sviluppare questo legame profondo di riconoscimento di sé stessi, e degli altri, come appartenenti ad un’unica comunità non solo culturale ma anche politica, quella dell’UE. Per fare ciò è però necessario aumentare le occasioni di incontro, di scambio e quindi di creazione di questo senso di lealtà comune nei confronti dell’Ue, magari ampliando l’inclusività di programmi come l’Erasmus.

Non giriamoci intorno: il senso di appartenenza tra i cittadini dell’UE è molto flebile. Ne è un esempio tristemente paradigmatico la da sempre scarsa affluenza alle elezioni europee, che anziché migliorare ha negli anni perso slancio, passando dal quasi 62% del 1979 al 42,6% del 2014. Ancora, le differenze economiche, sociali e politiche tra i vari Stati Membri sono anche molto evidenti, ma è però innegabile che i valori politici e sociali, i trascorsi storici e gli interessi economici e geopolitici comuni ai 27 sono molti. La diversità culturale è certamente una ricchezza dell’Ue, il suo motto: “Uniti nella Diversità” ne è l’emblema. Io però sono ambizioso, idealista e sognatore, spero lo siate anche voi! Penso che non dovremmo accontentarci di una moneta comune, delle frontiere aperte e di un programma che mi permette di studiare all’estero. Perché?

Perché diciamocelo, l’UE ha un potenziale politico enorme, che è venuto il momento di realizzare pienamente! Un potenziale che, con la bocciatura referendaria olandese e francese del 2005 di quella che sarebbe dovuta divenire la Costituzione Europea ha subito un brusco rallentamento nella sua realizzazione. Già, perché la costituzione non è un comune Trattato, non è un documento firmato e negoziato dai governi. La costituzione a differenza di molti documenti è del popolo, è dei cittadini che vedono i propri diritti e doveri sanciti, elencati e celebrati in un documento che appunto non è solo diritto, non è solo forma, ma anche spirito di una comunità. La costituzione si potrebbe dire, formalizza una sostanza, quella dell’esistenza di una comunità politica.

Insomma, c’è chi diagnostica all’UE un “deficit di unificazione politica”, così come gravi carenze in materia di democraticità delle proprie istituzioni. Una delle cause più gravi? La bassa intensità del legame identitario, tra i 500 milioni di abitanti e cittadini dell’UE. I paradigmi di questo malessere? La travagliata Brexit del 2016 e la sempre più fitta, almeno secondo i sondaggi, pattuglia di deputati euroscettici che si apprestano a sedere in Parlamento.

Ritornando però alla questione identitaria, molti sostengono che l’identità sia frutto di un accumulo di esperienze e memorie ed emerga quindi dal passato; altri invece la qualificano come in continua costruzione. Io tendo a stare nel centro. Penso infatti che il passato e la memoria collettiva di secoli di storia inevitabilmente segnino i nostri legami identitari. In questo caso vorrei però soffermarmi sul secondo approccio, quello costruttivista, dinamico, flessibile e compatibile con il mondo liquido e globalizzato del Ventunesimo secolo. Secondo i costruttivisti come Habermas, la società, i suoi valori, principi e quindi anche l’identità comune ad i suoi membri; non sarebbero né qualcosa di innato, né qualcosa di fisso, né qualcosa di predestinato. Sarebbero piuttosto un costrutto sociale, in altri termini il risultato della continua, sia essa analogica che digitale, dialettica sociale. Si potrebbe dire quindi che è dall’incontro nell’agorà della vita quotidiana, nelle piazze reali e virtuali, dallo scambio di opinioni nei bar, dal tifare una comune squadra di calcio e dal vivere difficoltà comuni che emergerebbe il senso di appartenenza ad una certa entità sociale.

Molti di voi staranno pensando: “ma questo è quello che stiamo già facendo nei confronti dell’UE, sai che novità!”. Certo, è quello che alcuni hanno avuto la fortuna di sperimentare. Però siamo solo una fortunata minoranza! Siamo studenti universitari, sportivi agonistici, viaggiatori, studenti di lingua, amanti dell’avventura, persone che grazie a borse di studio, al proprio lavoro o ai sacrifici dei genitori sono riuscite a vivere l’UE, attraversarne liberamente le frontiere, sperimentarne comodità di svago, lavorative e economiche. Non tutti però si possono permettere o desiderano trascorrere un weekend in una capitale europea, così come non tutti gli studenti universitari sono riusciti a partecipare ad uno scambio Erasmus, inutile aggiungere che non tutti sono atleti o musicisti con l’occasione di andare all’estero, così come pochissimi possono partecipare ai vari Model European Union organizzati in giro per l’Europa.

Insomma, visionando ad esempio i dati relativi al programma Erasmus+, finanziato dalla Commissione Europea si notano varie criticità, la più grave: dal 1987, anno di inizio del programma, circa 9 milioni di persone, corrispondenti solo al 1,7% della popolazione europea, vi hanno preso parte. Mi spiace, ma io sono convinto che non sia abbastanza. Certo, la Commissione ha già annunciato che proporrà un aumento del budget previsto per gli anni compresi dal 2021 al 2027, ma nonostante questo penso che sia troppo poco, così come non penso che sia solo l’Erasmus la chiave per risolvere il problema. È necessario che l’UE si mostri, coinvolga ed arrivi anche da coloro che non ne sono esposti quotidianamente per lavoro o studio, che non la ricercano costantemente per motivi di studio o che non la amano per partito preso.

Un’idea avuta dall’associazione che ho il piacere di coordinare, BETA Italia, è stata ad esempio quella di raccontare l’UE, spiegando storia ed implicazioni della cittadinanza europea nelle scuole superiori, là dove i ragazzi stanno ancora decidendo cosa fare del loro futuro, come trascorrere l’estate e se impegnarsi o meno nel volontariato sociale. Là, in questi “incubatori di speranza e di cittadini” io non mi presento mai come europeista senza se e senza ma, bensì come euro-critico, ovvero come un ragazzo ventenne che si sente europeo ma che ha un certo ideale di UE in mente, che spera un giorno di vedere realizzare ed al quale desidera contribuire. Quello che raccontiamo e spieghiamo è quindi un modo per supportare i giovani cittadini europei, a scoprire la propria identità europea storica e a sviluppare, questa è la parte più importante, la voglia di contribuire alla costruzione di quella presente e futura.

E’ proprio vero quindi, l’UE ha bisogno di tutti noi per essere costruita ed ha bisogno di tutto il nostro agire comune e quotidiano affinché una vera identità politico-culturale possa nascere. Questo necessita anche una narrazione europea, necessita di romanzi, di film, di eventi che favoriscano l’incontro, se non fisico almeno delle menti, delle narrazioni: compatire e sviluppare una coscienza collettiva sono processi chiave per creare una vera identità europea, vissuta e condivisa. Una proposta? L’accorpamento delle nazionali delle discipline sportive in squadre europee. Certo, ci sarebbero meno atleti ai campionati internazionali, ma pensate a cosa significherebbe che durante: Olimpiadi, competizioni mondiali, giochi giovanili, ed eventi sportivi in genere, 500 milioni di persone tiferebbero per gli stessi sportivi; che milioni di persone, negli stessi istanti sorriderebbero, piangerebbero, si dispererebbero o impazzirebbero di felicità, per la vincita di qualcuno che rappresenterebbe l’intera UE.

Certamente, questo non può prescindere da due cose. Una riforma istituzionale dell’UE, che ne favorisca maggiori democratizzazione e sovranazionalità, e che soprattutto le identità nazionali e regionali non vengano denigrate ed accantonate. Ogni identità è importante, ogni identità è uno strato della nostra essenza di persona. Sono convinto che in un mondo come il nostro, caratterizzato da una vita che si esplica su più dimensioni geografiche (locale, regionale, nazionale, europea e globale) e su più dimensioni spaziali (cinetica e cibernetica), le identità multiple siano il concetto che più possa confarsi allo stato dei fatti. Non il capriccio di alcuni intellettuali da salotto, né il rilevamento di una schizofrenia identitaria della società, bensì l’inevitabile conseguenza del mondo in cui viviamo.

Insomma, viva i giovani europei, viva l’UE, viva la cittadinanza attiva, ma proviamo veramente a costruirla l’identità europea. Aver fatto l’Erasmus e aver viaggiato non può bastare. Perché? Semplicemente perché pochi hanno l’occasione di vivere queste esperienze. Bisogna riuscire a rendere l’UE più quotidiana, più inclusiva, più sociale e forse “potabile”, ovvero alla portata di tutti i giovani e non di un’unica minoranza privilegiata o fortunata. Ammetto che non ho la risposta in tasca, ampliare i fondi Erasmus può essere una via, ma a me sembra piuttosto cosmetica e superficiale. Sicuramente avrò omesso di menzionare qualche fondo per giovani professionisti o qualche possibilità di apprendistato, tutte possibilità importanti e positive. Voi le avete sperimentate? Cosa potete raccontare? Vi lancio la sfida quindi, scrivete, commentate e proponete: come possiamo rendere l’UE più inclusiva e “più potabile”? Abbordabile a tutti i giovani, e non solo ad universitari, viaggiatori, sportivi, musicisti, attivisti e giovani professionisti? Secondo me, questa è la vera domanda che noi giovani cittadini attivi europeisti dovremmo porci.

Elia Gerola.

BIBLIOGRAFIA:

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